Mi colpisce un articolo che leggo (link), nel quale si parla di Tamara Lunger, alpinista, che si è fermata a soli 70 metri dalla vetta del Nanga Parbat, uno degli “Ottomila” più difficili da scalare.

Tamara, che a 29 anni poteva diventare la prima donna a salire su una delle montagne più alte del mondo durante la stagione invernale, ha rinunciato perché si è resa conto che non aveva più forze da mettere in ciò che stava facendo e rischiava di non tornare più a casa, vittima di quella che è abitualmente definita “la montagna assassina”.
Il suo corpo le ha mandato segnali e messaggi inequivocabili: “fermati! Ciò che fai non va bene. Non va più bene”.

Leggere questo episodio mi ha fatto tornare alla mente qualcosa di simile, che mi è capitata tanti anni fa.

Non stavo facendo nessuna scalata, ma ero arrivato al vertice di una carriera a lungo perseguita e desiderata.

Dovevo solo dimostrare che ero in grado di farcela a far vedere a tutti che ero e cosa sapevo fare.
Ma ogni giorno che passava mi esauriva, sfiniva, prosciugava al punto che chi mi stava vicino diceva che andavo al lavoro come un condannato a morte si appresta ad andare al patibolo.

Cosa avrei dovuto fare?
Oggi come oggi dico che avrei dovuto fare come ha fatto Tamara – fermarmi – anche se il traguardo era a portata di mano.

Non l’ho fatto, non mi sono fermato, ed il mio corpo ha pensato bene di ammalarsi e di tenermi lontano dal lavoro per qualche mese.
Durante la malattia ho capito che stavo facendo la cosa sbagliata per me e gli obiettivi che mi ero dato mi stavano distruggendo.
Una volta guarito mi sono licenziato ed ho iniziato una nuova vita lavorativa.

Ho ripensato spesso a quell’episodio.
Sapevo che stavo sbagliando, però ho voluto insistere.
Col senno di poi dico che non vale la pena ammalarsi per il lavoro, per raggiungere un obiettivo a costo di fare violenza su me stesso.

Non ci sono stipendi o carriere che ripagano dello stupro che facciamo su noi stessi nel continuare a fare qualcosa che sentiamo, percepiamo, non andare più bene.

Non ha senso, ad esempio, sforzarci di subire le angherie del capo, dei colleghi o di qualsiasi altra situazione che ci fa stare male.
Se al mattino vomitiamo all’idea di andare al lavoro, vuol dire che quel lavoro, quel contesto, quei colleghi, non fanno più per noi.

Non vale la pena inseguire un traguardo, una strada sbagliata – costi quel che costa – perché potrebbe addirittura costare in tutto e per tutto a noi stessi.
Quando una situazione diventa critica – ed i segnali ci sono tutti per capirlo – è inutile insistere.
Molto meglio iniziare un lento ma consapevole distacco predisporsi al cambiamento.
Che inevitabilmente avverrà.

La rinuncia non deve essere vista e vissuta come un fallimento, ma come la ricerca – indotta o voluta – di qualcosa più congeniale alla nostra natura e al nostro vero modo di essere.